Le forniture di gallio e germanio sono al centro della prima reazione della Cina alle restrizioni sulla tecnologia imposte dall’Occidente. Una decisione questa non esente da rischi
Era solo questione di tempo prima di assistere alle contromisure adottate dalla Cina contro il Chips Act e, più in generale, contro diverse forme di embargo sulle tecnologie. Difficile sorprendersi quindi, come a pochi giorni distanza dall’annuncio ufficiale dei nuovi progetti Intel in Europa, dal rivale asiatico arrivi una pronta risposta. Com’è facile da prevedere, tutto ciò sul terreno più congeniale, vale a dire sull’approvvigionamento delle materie prime. In particolare, quelle dove la Cina ha speso gli ultimi anni, tra un silenzio colpevole di buona parte del mondo Occidentale, ad aggiudicarsi le risorse al di fuori dei propri confini.
La Repubblica Popolare Cinese ha così annunciato l’intenzione di limitare drasticamente l’esportazione di gallio e germanio. A parte gli addetti ai lavori, sono questi metalli probabilmente non tra i più noti, indispensabili, però, nei processi per la realizzazione dei chip e ampiamente utilizzati in mercati trainanti come quelli delle TLC e dell’automotive, per i veicoli elettrici in particolare.
L’intenzione è far partire il provvedimento già dal primo di agosto. Il pretesto, per la verità non molto simile da quello adottato a suo tempo dagli USA nei confronti di Huawei e seguito da diversi altri Paesi europei, sono le presunte questioni di sicurezza nazionale. Di conseguenza, prima di esportare i minerali, sarà necessaria un’espressa autorizzazione del Ministero, indicando gli acquirenti stranieri e l’utilizzo previsto.
La reazione della Cina a una situazione difficile
La situazione per la Cina inizia a diventare difficile. L’elenco dei governi allineati all’embargo verso il Paese asiatico inizia a diventare consistente. Il più recente, l’Olanda, ha interrotto la fornitura dei macchinari per la produzione di microchip. Anche solo sul piano politico, una risposta era quindi prevedibile.
Risale invece allo scorso ottobre l’obbligo introdotto dall’Amministrazione Biden di autorizzazioni speciali per le forniture di alcuni microchip al Paese asiatico. Sanzione estesa automaticamente a qualunque azienda con all’interno dei propri processi produttivi macchinari costruiti negli USA.
Al di là delle buone intenzioni e dei provvedimenti presi, il punto debole dell’Unione Europea al momento restano le materie prime. Colpire quindi quelle indispensabili nei settori in maggiore crescita, a partire dalla produzione di pannelli fotovoltaici, è una mossa abbastanza prevedibile. Anche perché, negli ultimi anni, mentre l’Europa aveva deciso di dare credito a partner commerciali oggi rivelatisi poco affidabili, la Cina ha investito tempo e denaro nel conquistare diritti di estrazione in buona parte dell’Africa. Di fatto, oggi una buona parte di questi elementi, come le terre rare, è sotto il controllo di Pechino.
È questa una situazione resa ancora più delicata dalla resistenza europea nello sfruttare i giacimenti locali. Anche nel Vecchio Continente, infatti, le risorse non mancano. Il problema è un processo di estrazione e di lavorazione considerato poco sostenibile per gli standard europei. Alla questione si aggiunge poi anche un potenziale aspetto etico: in pratica, accettare processi poco trasparenti a condizione di non averli a portata di vista.
Anche il momento della decisione non appare casuale: giusto pochi giorni prima della visita ufficiale a Pechino di Janet Yellen, Segretaria del Tesoro USA. Con già in agenda alcune questioni spinose, tra cui la recente vicenda del presunto pallone-spia e diverse sanzioni già in atto, il problema dei materiali rappresenta una carta in più da mettere sul tavolo della contrattazione e, a Xi Jinping, ciò fa sicuramente comodo.
Gli elementi della sfida
Dal punto di vista pratico, uno dei problemi del gallio e del germanio è la loro relativa utilità. Per quanto indispensabili nei processi di realizzazione dei semiconduttori, in realtà non ne servono quantità così grandi. È difficile quindi giustificare l’installazione di impianti dedicati. Più comunemente, tali materiali si ricavano come prodotti secondari dalla lavorazione di materie prime come lo zinco o l’alluminio, dei quali sono sottoprodotti.
Gallio e germanio sono tuttavia indispensabili. Il gallio, per migliorare parametri come velocità di trasmissione ed efficienza nei componenti dedicati – tra l’altro – ai telefoni cellulari o ai televisori. Questo elemento viene utilizzato anche nei pannelli fotovoltaici e all’interno dei radar. Per quanto riguarda invece il germanio, è questo un componente utilizzato per la fibra ottica, oltre a essere presente nei satelliti spaziali e nei visori notturni. È facile quindi intuire quanto sia strategico il relativo approvvigionamento, per quanto limitato in valore assoluto.
In ogni caso, Pechino ha scelto sicuramente bene la carta da giocare. Come indicato in uno studio dell’UE, il 94% di gallio e l’83% di germanio arrivano proprio dalla Cina. L’unica fonte interna è al momento il Belgio. Nuovi canali si apriranno dalla Repubblica Democratica del Congo, anche se non prima del prossimo anno.
Più ancora della disponibilità, per chi utilizza questi materiali, il vero rischio è il prezzo. I costi di estrazione e lavorazione sono infatti importanti. La Germania stessa, protagonista del mondo semiconduttori in Europa, preferisce l’importazione. Finora la soluzione cinese è stata anche la più economica; se però la situazione dovesse cambiare come da previsione, allora lo scenario andrà ridisegnato. Aggiungendo problemi, rischi e rincari legati alla supply chain, aumentano le probabilità di trovare imprenditori intenzionati a investire anche a livello locale.
Mossa a doppio taglio
Una considerazione avallata da Hallgarten & è che se nell’immediato la decisione di Pechino provocherà inevitabilmente una crescita dei prezzi, anche solo per un aumento delle scorte, a lungo termine ciò rischia di rivelarsi un’arma a doppio taglio; in misura non molto diversa da quanto successo con le forniture di gas russo. Segnali questi peraltro già concreti per quanto riguarda altre materie prime strategiche, a partire dall’antimonio, dal tungsteno e dalle tanto discusse terre rare.
Il rischio per la Cina di mettere ulteriormente in gioco la fiducia a lungo termine in cambio di un ritorno immediato in termini di guadagni e, soprattutto, di peso contrattuale è quindi concreto. Al momento, USA e UE sembrano intenzionati a proseguire per la propria strada, anche se non sempre necessariamente la stessa.
Con il passare del tempo, l’obiettivo Europeo di maggiore autonomia produttiva porta ad allargare il raggio dei prodotti sottoposti a controllo sull’importazione. La proposta di metà giugno prevede di stringere le maglie per esportazione e investimenti in un settore molto attuale come l’intelligenza artificiale, ma anche sui semiconduttori e perfino gli strumenti per il calcolo quantistico. Aspetto importante: non si parla espressamente della Cina, ma di una strategia più allargata. Al contrario invece, di quanto emerge dalle intenzioni meno accorte di Pechino.
Anche perché, se l’Europa non può ignorare del tutto la Cina come partner commerciale, vale pure il viceversa. Si parla del terzo mercato più importante per le vendite dall’Europa, al tempo stesso anche il primo fornitore. A fine 2022, per uno scambio complessivo di 865 miliardi di euro, il valore è praticamente raddoppiato nel giro di una decina di anni.
A preoccupare però, è l’andamento. Le importazioni da Oriente aumentano molto più velocemente delle esportazioni. Da qui i timori di dover mettere un freno per non scongiurare la prospettiva di una dipendenza economica. Una situazione questa raggiunta con il contributo importante dell’Italia, in qualità di primo membro del G7 a firmare nel 2021 l’accordo sulla Nuova via della seta, sui cui risultati si potrebbe discutere. A fronte di aumenti nelle esportazioni verso la Cina pari a tre miliardi di euro, il percorso inverso è invece cresciuto di 26 miliardi di euro.
L’Unione Europea può comunque giocare su un interesse generale nel voler diversificare le forniture. Dopo quanto successo a seguito dell’invasione Russa in Ucraina, non affidarsi a un unico forniture è una decisione difficile da confutare. E difficilmente potrà contribuire a far cambiare idea aver fatto la voce grossa con la Lituania, secondo Pechino colpevole di aver aperto un ufficio di rappresentanza a Taiwan e per questo entrata nel mirino cinese con conseguente crollo dell’export dell’80%. Cifra quasi sicuramente trascurabile nell’economia locale, a differenza di quanto costerebbe invece rinunciare al mercato europeo, per un Paese da inizio luglio alle prese anche con preoccupanti segnali di deflazione.