Oltre agli scontri sul campo, la guerra fra Russia e Ucraina si combatte anche in altre dimensioni, da quella mediatica a quella dei metalli, delineando scenari futuri di profonda preoccupazione.
Ventunesimo giorno di guerra. L’Ucraina invasa resiste ai bombardamenti dei centri abitati, mentre le prime crepe del dissenso iniziano a comparire nell’inossidabile intelaiatura informativa russa. Masse di profughi continuano a varcare i confini dell’Occidente (siamo ormai a quota 3 milioni), mentre la diplomazia internazionale non riesce a trovare una soluzione a un conflitto il cui esito, nel bene e nel male, sembra allontanarsi sempre più. Fra i tentennamenti sempre sempre meno tollerabili della Cina, le pressioni dell’opinione pubblica mondiale sconvolta dai crimini commessi dai russi in Ucraina e una Federazione russa che prosegue a velocità ridotta, ma inesorabile, nell’ “operazione militare speciale” di “denazificazione” del territorio ucraino, altre guerre si stanno combattendo. Quella dei metalli è una di queste. Una guerra meno sconvolgente di quella trasmessa dai media internazionali, ma destinata ad avere pesanti ricadute sulle tecnologie avanzate, non ultime quelle dei semiconduttori e dell’elettronica in generale.
Sanzioni economiche sempre più dure
Il cappio delle sanzioni si stringe sempre più intorno al collo dell’orso russo. L’Unione europea sembra essere sempre più unita. Nel quarto pacchetto di sanzioni varato ieri a Bruxelles vi sono una serie di elementi che hanno lo scopo di affossare ancor di più le potenzialità industriali e commerciali della Russia di Putin: la proibizione di qualsiasi transazione commerciale con entità statali russe nel settore industriale e militare, il divieto dell’importazione nell’UE di beni di lusso (caviale, diamanti e vodka, fra tutti), l’allargamento delle sanzioni a un’ulteriore fetta di oligarchi e di personaggi della comunicazione legati alla cerchia di Putin, senza contare la decisione dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) di negare ai prodotti e servizi russi il trattamento di "nazione più favorita" nei mercati dell'Unione, così come era stato già annunciato venerdì dai membri del G7. Queste sono solo alcune delle restrizioni imposte alla Federazione russa da un’Unione europea che, come abbiamo detto, non è mai stata così compatta. Non dobbiamo però dimenticare uno dei vincoli più importanti imposti dall'UE: il divieto d’importazione per prodotti siderurgici attualmente soggetti alle misure di salvaguardia dell'Unione, misura che infliggerà perdite pari a circa 3,3 miliardi di euro per le esportazioni russe; tutto ciò seguito da un aumento delle quote d'importazione da Paesi terzi per compensare il mancato arrivo di quei prodotti verso l'Unione Europea. Insomma, così come per il gas, i metalli ce li andremo a cercare altrove.
I metalli: il primo fra i mille volti della guerra
Eppure, il legame fra la guerra e i metalli non è casuale, ne abbiamo già accennato in un precedente articolo. Il prezzo del nickel – elemento fondamentale oltre che per l’industria siderurgica, anche e soprattutto per quella delle batterie elettriche – è passato dal 23 febbraio al 7 marzo, dai 24.282 dollari per tonnellata ai 48.078, per poi schizzare il giorno dopo a quota 80.000 US$ (con una crescita in termini percentuali del 229%). Martedì scorso (8 marzo) il London Metal Exchange ha sospeso gli scambi di quel metallo per il pericolo di “rischi sistemici”; aumenti che hanno costretto la borsa a imporre misure di emergenza anche sul resto dei suoi contratti principali sui metalli di base, di cui la Russia è una delle maggiori esportatrici (parliamo in particolare di alluminio e rame).
L’azienda russa di maggiore peso nel settore del nickel è la Norilsk Nickel, che rappresenta circa il 63% del consumo stimato nel 2020, secondo gli analisti di Natixis. Un produttore non ancora toccato dalle sanzioni internazionali e che, guarda caso, è anche il massimo esportatore russo di un altro elemento fondamentale per la produzione di semiconduttori: il palladio. La volatilità dei prezzi di questo elemento preoccupa gli analisti del settore, con aumenti nelle ultime settimane non inferiori al 25% (la settimana scorsa ha toccato il tetto di 3441 US$ all’oncia). Ricordiamo però che – al di là dell’utilizzo nell’industria dei semiconduttori – il palladio è fondamentale per le case automobilistiche, che ne consumano circa l'85% della fornitura per la realizzazione dei convertitori catalitici usati con i motori a benzina. Insomma, bisogna correre ai ripari e, di nuovo, l’Occidente sta cercando un’alternativa in vista di una potenziale chiusura dei rubinetti nelle forniture russe. Il platino potrebbe essere la soluzione. Sebbene la Russia sia il secondo produttore al mondo di questo metallo, il suo peso conta solo per il 13% del totale, mettendoci al riparo da qualsiasi futura ritorsione sulle forniture.
Sanzioni e paradisi fiscali
Intanto i padroni delle grandi compagnie di estrazione petrolifera e mineraria russi (ma anche agroalimentari e chimiche) – un migliaio fra oligarchi e miliardari agevolati e sostenuti negli ultimi anni dal governo di Vladimir Putin – stanno vivendo un momento di difficoltà. Una difficoltà relativa, in realtà, nonostante i Paesi occidentali si stiano accanendo in modo mirato sui loro beni e sulle loro proprietà (solo ieri il Regno Unito ha reso noto che imporrà sanzioni a ultieriori 370 persone di nazionalità russa, compresi più di 50 oligarchi e le loro famiglie con un patrimonio netto combinato di 100 miliardi di sterline). Il caso di Roman Arkadievich Abramovich – il patron del Chelsea – lo conosciamo bene, così come la vicenda di Andrej Igorevich Melnichenko, con il suo yacht da 530 milioni di dollari sequestrato dalla polizia tributaria italiana nel porto di Trieste l’11 marzo scorso, in ottemperanza alle disposizioni internazionali. Un po’ tutti i nomi di spicco compaiono in quella lista, non ultimi i due siloviki (personalità associate alle strutture di potere) di Putin, Sergej Lavrov, Ministro degli Esteri, e il Segretario della Difesa Sergei Shoigu, l’ingegnere in divisa mimetica che ha ideato e coordina le operazioni del mattatoio ucraino.
Eppure risulta che anche queste sanzioni riusciranno a scalfire solo in minima parte gli interessi degli amici di Putin. I paradisi fiscali stanno accogliendo a braccia aperte l’arrivo delle holding dei magnati dell’alluminio, del petrolio e dell’agroalimentare della Federazione, a partire dall’enclave di Kalinigrad, in cui lo stesso Putin ha ormeggiato il suo superyacht poco prima dello scoppio delle ostilità e in cui sembra si siano trasferite al momento ben 63 società. Vero e proprio safe haven per i beni dei miliardari russi, Kaliningrad non è il solo (anche se l’unico a essere in territorio russo): le Maldive sono una delle altre mete, così come quella scappatoia privilegiata che è Dubai, un buco nero in cui si stanno riversando miliardi di dollari dei magnati russi alla faccia delle sanzioni occidentali. I mille volti della guerra sono anche questi.
La guerra embrionale dei media
E un volto che in queste ore ha catturato l'attenzione dei media di tutto il mondo è quello della giornalista russa del canale Channel One, Marina Ovsyannikova. Comparsa con un cartello scritto a mano durante la trasmissione serale, la Ovsyannikova ha denunciato la guerra di Putin, dichiarando in un video preregistrato che il popolo russo è stato “zombificato” dagli attuali governanti. Dopo 16 ore di interrogatori e dopo che le organizzazioni internazionali hanno preso ufficialmente le sue parti, Marina Ovsyannikova è stata liberata dietro il pagamento di una multa di 30.000 rubli (circa 250 dollari) per attività “teppistiche”, secondo la definizione del ministro degli esteri, Sergej Lavrov. Una vicenda che potrebbe chiudersi con un lieto fine, se non fosse che la Ovsyannikova sarà processata, probabilmente con l'accusa di diffondere false notizie, reato che prevede 15 anni di reclusione.
Indignazione, rabbia e soprattutto paura sono i sentimenti che traspaiono dalle reazioni dei media russi alle restrizioni alla libertà imposte dal Cremlino. È notizia di qualche ora fa che Vadim Glusker, corrispondente da Bruxelles della rete NTV, e Dzanna Aglakova, collega della Ovsyannikova, si sono dimessi dalle rispettive testate. Lilia Gildeeva della rete NTV e Ivan Urgant, volto famoso della televisione russa, hanno lasciato il Paese. Si parla ormai di un esodo di più 200 giornalisti, da un paese che è sempre più chiuso, sempre meno sicuro e sempre meno trasparente.
La Russia, insomma, nonostante la spavalderia dimostrata sul campo di battaglia, sembra subire i primi scossoni. Avremmo quasi la tentazione di rispolverare quella definizione data da Diderot alla Russia imperiale: un “colosso dai piedi d’argilla”, ma non è ancora il momento. Al momento c'è solo da sperare che le cose si risolvano, e presto, e che le armi cessino di tuonare.