Giovanni Ghione, professore ordinario al Politecnico di Torino e Fellow della prestigiosa IEEE, dalla scorsa estate è il nuovo presidente della Associazione Società Italiana di Elettronica (SIE, ex Gruppo Italiano di Elettronica). Un vero e proprio “think tank” che organizza tra l’altro, con cadenza annuale, due eventi importanti: una riunione che rappresenta l’occasione di incontro e confronto della comunità scientifica sulle tematiche in cui si articola oggi l’elettronica, e una Scuola Annuale di Dottorato a cui partecipano tra i docenti personalità scientifiche di primo piano sul palcoscenico italiano e internazionale e, come studenti, giovani ricercatori provenienti dall’Italia e dall’estero.
Ghione subentra ad Andrea Lacaita, del Politecnico di Milano, e ricoprirà l’incarico di presidente di SIE fino al mese di giugno 2020. Con una lunga esperienza didattica e di ricerca che lo ha visto attivo tra Milano, Catania e appunto Torino, Ghione conosce bene il mondo dell’accademia e delle industrie italiane più avanzate e innovative. Come già il suo predecessore alla presidenza dell’Associazione, anche Ghione esercita la sua attività di ricerca nell’elettronica di base più avanzata. Nel suo caso si tratta di dispositivi, micro-onde e fotonica con le relative applicazioni.
Qual è oggi il ruolo dell’associazione SIE?
Vorrei che fosse davvero la casa di tutti gli elettronici in Italia, che provengano dall’Accademia o dall’Industria. Per noi universitari ha un ruolo molto importante. Siamo sopravvissuti a diverse tempeste magnetiche, per esempio la trasformazione dei vecchi corsi di laurea quinquennali nella formula attuale del “3+2”: tre anni per il diploma di primo livello e altri due per la laurea magistrale. Tutti i sommovimenti che abbiamo visto, oltre alla rapidissima evoluzione del nostro settore, ci obbligano a confrontarci, scambiare esperienze, dialogare tra noi in modo continuo e strutturato. Questo è uno dei compiti dell’associazione. Ma non è un club di professori. C’è anche una folta rappresentanza di persone che operano nell’industria. Con un duplice vantaggio: l’Università ha un modo in più per non perdere il contatto con la realtà produttiva, e si attiva un virtuoso scambio di know-how e tecnologia con chi cerca l’innovazione per avere successo sul mercato.
Com’è il rapporto con l’industria?
Il mio predecessore, il prof. Lacaita, ha spinto molto l’acceleratore sulla collaborazione con la piccola e media impresa, una realtà vivace che rappresenta una ricchezza per il nostro Paese. Oggi c’è molto bisogno di lavorare insieme. In passato, fare innovazione voleva dire sostanzialmente seguire la legge di Moore, ridurre sempre più le dimensioni dei componenti elementari. Oggi non è più così. Si parla di interdisciplinarietà, multidisciplinarietà. In questo noi possiamo essere di grande aiuto. Dobbiamo anche tenere conto che è profondamente mutato il panorama che ci circonda. Quando io ho iniziato l’attività, uno dei miei naturali punti di riferimento era Telettra: oggi non c’è più, per lo meno non nella forma che aveva allora. Sono rimaste poche le grandi aziende “italo-centriche”. Ma non è detto che questo sia un problema. Alle nostre spalle (ndr: l’intervista ha luogo negli uffici del Politecnico di Torino) c’è un importante centro di General Motors, con il quale noi del Politecnico abbiamo ottimi rapporti di lavoro. Sono moltissimi gli esempi di una collaborazione consolidata nella ricerca. E spesso si attiva un scambio veramente profittevole per entrambi gli attori, creando tra l’altro occasioni di lavoro per i nostri ragazzi più brillanti.
C’è ancora, tra gli studenti, interesse ad affrontare corsi di elettronica di base o i ragazzi sono più attratti dal software, dallo sviluppo di app?
Certo, l’elettronica di base richiede più tempo e più impegno dello sviluppo di una app. Ma sono in molti che scelgono i nostri corsi, con passione. Il modulo del “3+2” forse è meno adeguato alle nostre esigenze rispetto al vecchio corso di laurea in cinque anni. A volte i laureati di primo livello sono piuttosto deboli. Molte volte, inoltre, i ragazzi scelgono di frequentare i primi tre anni nell’università vicino a casa e si trasferiscono altrove per gli ultimi due. Questo crea qualche problema perché i percorsi formativi non sono sempre uniformi. Magari in qualche sede si dà più importanza all’approccio sistemistico, in altre alle tecnologie di base. Questo porta al fatto che non tutti gli studenti affrontano la laurea magistrale partendo dalle stesse conoscenze di base. Quindi i professori possono avere la tentazione di rimanere un po’ sulle generali, senza approfondire troppo. Il rischio è la banalizzazione. Anche la spinta forte verso la multidisciplinarietà può essere un incentivo alla banalizzazione. Non si può essere esperti di tutto. È un problema noto, sul quale stiamo cercando di lavorare, anche se non è facile. Anche questo è uno degli obiettivi dell’Associazione SIE.
Qual è la sua opinione sulla capacità di innovare dell’industria?
I contatti non sono sempre facili. A volte non riusciamo a capire (o non riescono a dirci) cosa serva veramente, quali siano i temi su cui è necessario concentrare l’attenzione. È un po’ come se noi allenassimo gli studenti in uno sport che non è però quello nel quale gareggeranno, nel corso della loro carriera professionale. Poi in Italia la piccola e media impresa non ha sempre molta attenzione a sviluppare al proprio interno competenze di ricerca. Ho un esempio concreto: noi operiamo da tempo con un’aziendina tedesca di un centinaio di persone. Investono molto e c’è forte sinergia tra i nostri sforzi e i loro: insomma, si lavora insieme. Abbiamo anche una relazione storica con una società piemontese di grande tradizione in un settore non strettamente legato alla tecnologia. Loro continuano a chiederci di fare proposte, noi li sollecitiamo a dirci in che direzione vogliono andare. Così non si va molto avanti. Si deve procedere insieme, entrambi gli attori devono voler investire e lasciarsi coinvolgere.
Vi sentite aiutati dalle istituzioni pubbliche, nella vostra attività di creare ricchezza tramite la ricerca e l’innovazione?
Come è normale, cerchiamo di trarre vantaggio da tutti bandi e le iniziative europee, alleandoci magari con partner industriali. Ci sono esempi di eccellenza. Certo, un po’ di attenzione in più da parte delle istituzioni, soprattutto quelle del nostro Paese, non guasterebbe.