L’ossessione della Cina per Taiwan non è solo di natura politica. Il controllo del principale produttore di microprocessori al mondo fa gola anche per altri motivi.
Sul versante mediatico, la disputa tra Cina e Taiwan, con la partecipazione non disinteressata degli USA, è proposta soprattutto come una questione politica e di prestigio internazionale. Anche se molto meno dibattuto, c’è però un secondo fronte altrettanto importante dal punto di vista strategico. Ancor più strategico, probabilmente, se analizzato dal punto di vista dell’elettronica. Si tratta delle enormi competenze presenti sull’isola, sia in termini di tecnologia sia per quanto riguarda la produzione.
Agli addetti ai lavori è ben nota, infatti, la supremazia di Taiwan a livello mondiale per quanto riguarda i semiconduttori. Altrettanto conosciute, anche se meno diffuse, sono le difficoltà della Cina nel reggere il passo con l’innovazione, rese ancora più marcate dalle restrizioni tuttora imposte dagli USA, ma anche dalle rinnovate ambizioni in campo militare e tecnologico. Facile quindi intuire la motivazione aggiuntiva, se non addirittura la principale, di annettere al più presto tutto quanto si trovi a Taiwan, geograficamente piccola, ma vero e proprio gigante quando si parla di tecnologia. Il quadro risultante è di conseguenza articolato e delicato come pochi altri. La combinazione imprevedibile delle vicende degli ultimi anni ha contribuito a delineare uno scenario ancora almeno in parte da decifrare, di fronte al quale però è necessario muoversi senza esitazioni.
In particolare, l’insegnamento ricavato da praticamente tutte le nazioni più evolute è la necessità di diversificare sotto ogni aspetto, dalle forniture alle produzioni, dai partner commerciali alla supply chain, e soprattutto valutare le relazioni, guardando molto più all’affidabilità di lungo termine rispetto a vantaggi economici a breve.
In sostanza, per il mondo occidentale e relativi alleati storici - oltre a Taiwan anche Giappone e Corea del Sud - significa prima di tutto ridurre il più possibile la dipendenza dalla Cina.
Come l’invasione russa in Ucraina insegna, scegliere la via più economica fa presto a rivelarsi controproducente e porre rimedio si rivela molto più costoso di un maggiore investimento iniziale. Sono da inquadrare in quest’ottica l’accordo statunitense con TSMC, comprensivo di relativi incentivi, per la costruzione di un impianto produttivo da 12 miliardi in Arizona. Inoltre, nell’ambito dell’accordo Intel con l’UE rientra anche un sito produttivo in Italia. La stessa Intel è a sua volta impegnata per riequilibrare le produzioni ridando maggior peso all’attività locale.
In pratica però, la situazione non appare così fluida come a livello politico si vuole far credere. Non basta certamente infatti allestire una fabbrica per trasferire una produzione. Servono infatti anche competenze e attrezzature all’avanguardia, il cui travaso è decisamente meno immediato.
Mentre per gli impianti in Europa si parla di tecnologie a 28 nm, negli scorsi mesi Samsung ha ufficializzato la possibilità di avviare produzioni di microprocessori a 3 nm, e ha già fissato la tabella di marcia per arrivare a 2 nm. Un traguardo che si prospetta non lontano anche per TSMC. In estrema sintesi, significa ridurre non tanto le dimensioni, quanto i consumi, aumentando al tempo steso la potenza. Aspetti molto importanti per la competitività.
Taiwan tra due fuochi
In mezzo a tutto questo, alla fine, si ritrova Taiwan. Integrare in qualche modo l’isola sotto il proprio controllo risolverebbe buona parte dei problemi di fornitura della Cina, così come di quelli sulle competenze. A maggior ragione però, componenti e competenze a quel punto saranno sfruttabili solo sul mercato interno, mentre anche il prezzo da pagare per il resto del mondo non sarebbe trascurabile. E non solo per una difesa militare dell’isola sostenuta dagli USA, per i quali la questione è molto più delicata di quanto a volte si voglia far credere. Perdere le forniture di Taiwan, o vederle legate agli umori cinesi, significherebbe molto per il mercato Occidentale. Non a caso, le pressioni per spostare in America almeno parte della produzione TMSC sono in crescita. Ufficialmente, con l’obiettivo di liberare, in questo caso tecnologicamente, Taiwan dalle pericolose dipendenze dello scomodo e prepotente vicino.
Chip 4 alla ricerca di affidabilità
Invece di andare alla ricerca dell’indipendenza produttiva, l’alternativa più realistica al momento sembra quindi una scelta più accurata dei partner. È l’obiettivo inseguito dal Chip 4, l’iniziativa promossa dagli USA, rivolta ai principali rivali della Cina in Asia: oltre a Taiwan, Corea del Sud e Giappone. Secondo l’analisi proposta da The Diplomat, questa iniziativa si pone come una scelta non solo politica. Ciascun Paese interessato infatti ha un proprio punto di forza nella filiera. Se Taiwan resta l’epicentro di produzione, assemblaggio e test, la Corea del Sud può mettere in campo il patrimonio Samsung in materia soprattutto di progettazione e il Giappone porta in dote conoscenze non comuni, oltre alla produzione di alcuni materiali critici come il photoresist. In combinazione con i brevetti, e finanziamenti, made in USA, l’obiettivo di rendere la vita più difficile alla Cina si fa più concreto.
D’altra parte, si parla anche di un mercato del quale è difficile fare a meno. Buona parte delle aziende americane, a partire da Apple, hanno ancora la produzione in Asia, mentre la Corea del Sud esporta in Cina il 60% della propria produzione di chip, come risulta dalla Korea International Trade Association. In passato, il Paese comunista non ha esitato a sfruttare questa situazione a proprio beneficio, minacciando il blocco, e in qualche caso attuandolo, sulle importazioni a seguito di accordi militari con gli USA.
Più in generale, fonti governative ricordano come la Cina pesi per circa il 70% sulla domanda globale di notebook e l’80% di smartphone. Nel 2020, questo ha significato un flusso di 350 miliardi di dollari verso USA e Corea del Sud.
La strada tuttavia sembra ormai segnata. Anche se i tempi saranno inevitabilmente lunghi, e presumibilmente ricchi di imprevisti, quasi certamente qualcosa cambierà. Nell’immediato, anche solo per la volontà di controllare meglio la tecnologia esportata perso il gigante asiatico. Per la stessa ragione per cui chi produce ha interesse a vendere, anche chi acquista non può al momento fare a meno della tecnologia prodotta all’estero.
L’esperienza del 5G, per buona parte in mano a Huawei, ha certamente convinto della necessità di controllare meglio la proprietà intellettuale delle tecnologie e relativo sfruttamento. Più di una sorta di sovranismo tecnologico, appare quindi sensata una collaborazione su basi anche politiche oltre che commerciali, intese non tanto come semplici accordi di convenienza quanto invece come propensione a garantire nel lungo periodo il libero mercato. In quest’ottica, il Chip 4 potrebbe vincere le diffidenze soprattutto della Corea del Sud e prendere effettivamente forma. Eventualmente, anche come base per un futuro allargamento all’Europa. Dove però rimane ancora un netto divario riguardo competenze e infrastrutture, almeno per quanto riguarda le produzioni di grandi volumi. Una situazione non rimediabile semplicemente costruendo nuovi impianti. Giusto per dare un’idea, una fabbrica di tale livello verrebbe a costare tra i 3 e i 4 miliardi di euro. Per intendersi, una al livello di TSMC ha un valore tra i 50 e i 60 miliardi di euro.
Nel frattempo, gli USA non stanno ad aspettare le decisioni dei potenziali partner. L’impegno nel bloccare, o quanto meno rallentare, lo sviluppo cinese prima di tutto sotto il profilo militare è già concreto. Le aziende d’Oltreoceano non possono più vendere a Pechino chip a potenziale uso bellico, compresi i sistemi di supercalcolo, e neppure le apparecchiature per realizzarli. Divieto esteso a tutti prodotti realizzati ovunque con tali sistemi.
Anche la Cina ha bisogno di partner
Come prevedibile, la risposta non si è fatta attendere. L’argomento è infatti emerso a più riprese durante uno degli eventi più formali e di alto livello per la Cina. Il confermato Presidente Xi Jinping in persona, durante il discorso di apertura del XX Congresso nazionale ha infatti sottolineato la necessità di supply chain affidabili e resilienti, prima di tutto nel proprio interesse.
Il problema è quindi reale, e dietro le dichiarazioni di facciata l’impatto delle ultime misure USA si prospetta importante per un Paese che acquista tre quarti circa dei semiconduttori prodotti a livello globale, ma la cui produzione interna non va oltre il 15% del fabbisogno.
La stessa Apple, infatti, ha intenzione di sospendere l’utilizzo dei componenti prodotti da Yangtze Memory Technologies, rallentando di conseguenza i progetti di estensione della fornitura già in corso. Una scelta però, almeno in parte favorita dai più recenti dati di vendita. Se nel 2015 infatti, Apple trovava in Cina il 25% delle proprie entrate, attualmente non va oltre il 19%. In questo senso forse, anche un buon pretesto per la decisione di ridurre il proprio impegno oltreconfine.
Difficile anche pensare a una sorta di reazione sullo stesso livello. Anche se prendere di mira le aziende nordamericane sul proprio suolo sarebbe controproducente, come sottolinea Valigia Blu, una possibile rivalsa si può applicare a monte, con la fornitura delle preziose terre rare, il cui mercato è per buona parte proprio in mano alla Cina.
Se nel lungo termine il potenziale per diventare a propria volta indipendenti nella filiera dei microprocessori non manca, nell’immediato si prospettano tempi difficili. Anche perché i primi risultati non sono tardati ad arrivare.