Il mercato, praticamente in mano alla Cina, preoccupa gli operatori del settore. Tra le alternative ci sono importanti opportunità per chi riuscirà a industrializzare i processi di riciclo.
Nei risvolti della ormai nota carenza di componenti, della serie di cause e ripercussioni destinata anche nel mondo dell’elettronica a cambiare lo scenario nel giro di pochi anni più di quanto sia successo in decenni, emerge tra gli altri un fattore particolarmente delicato: la questione delle terre rare. Componenti indispensabili nel settore.
A dispetto del nome, si tratta di elementi non poi così rari o, perlomeno, non quanto si potrebbe dedurre dalla definizione; più in linea semmai con le problematiche legate all’estrazione, al trattamento e – di recente – sempre più al riciclo. Le terre rare sono materiali intorno ai quali si sta soprattutto giocando una partita fondamentale sul piano economico, ma anche politico. Una situazione al momento ampiamente sotto il controllo della Cina, dove però il resto del mondo non intende stare a guardare.
Di cosa si tratta?
Quando si parla di terre rare ci si riferisce a un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, precisamente scandio, ittrio e la serie dei lantanoidi. La definizione deriva dai minerali dai quali vennero isolati per la prima volta, ossidi non comuni trovati nella gadolinite estratta da una miniera nel villaggio di Ytterby, in Svezia. In realtà, come sottolinea la Treccani, uno di questi, il cerio, risulta presente sulla crosta terrestre con la stessa abbondanza del rame, mentre il tulio, il più raro, è comunque più presente del cadmio. Dal punto di vista della lavorazione, il problema che li contraddistingue sono le notevoli difficoltà nel recupero e la separazione sia per le basse concentrazioni dei singoli elementi presenti nei minerali sia per le strette somiglianze chimiche e fisiche tra loro.
Secondo l’ulteriore precisazione dell’Osservatorio Artico, non sono infatti elementi presenti puri in natura, ma si trovano legati a circa duecento tipi di altri minerali (alogenuri, carbonati, ossidi, fosfati e silicati) di cui costituiscono appena da 0,5 a 60 parti per milione.
Sul piano economico, infine, è utile sapere come questi minerali siano localizzati: per più del 95% del totale li troviamo in Cina, negli Stati Uniti (Minnesota) e in India. La Cina da sola ne dispone circa per l’80%.
L’impennata dei prezzi
È facile quindi intuire la delicatezza delle scenario quando si parla di potenziali ripercussioni nelle crisi internazionali. Una situazione certamente nota da tempo, dove però ultimamente le cose si sono aggravate. Da una parte, le conseguenze dovute ai fermi produttivi e alle difficoltà nella supply chain hanno determinato una certa carenza. A differenza di altri settori e materie prime, in questo caso con alternative praticamente nulle. Dall’altra, normali e prevedibili interessi economici, resi ancora più precari dalla situazione politica internazionale, dove anche le vicende dell’Afghanistan arrivano a svolgere un ruolo non trascurabile. In più, le pressioni per accelerare la transizione ecologica prevedono prima di tutto la ricerca di alternative al carbone.
Ovviamente il Paese più lungimirante in questo senso è stato, ed è tutt’ora, la Cina, la quale è riuscita negli ultimi anni a monopolizzare il mercato di questi minerali. Il gigante asiatico estrae nei propri territori rame, litio e terre rare, mentre le altre materie le trova direttamente nei Paesi produttori con i quali ha stretto accordi per tempo. Nichel nelle Filippine e cobalto in Congo, trasformandoli poi direttamente in Patria. Secondo la società di analisi britannica Benchmark Mineral Intelligence, l’80% dei materiali grezzi per la costruzione delle batterie agli ioni di litio proviene da aziende cinesi. L’entrata sul mercato di veicoli elettrici, tecnologie digitali, generatori eolici, e dispositivi ecosostenibili, farà incrementare entro il 2030 il bisogno europeo di litio fino a 18 volte in più rispetto a quello attuale e di cinque volte quello per il cobalto.
Come prevedibile, l’Italia si trova a dover dipendere a altri. Per il reperimento delle terre rare, naturalmente dalla Cina, considerato come gli altri produttori le tengano ben strette. Si parla addirittura del 98% del fabbisogno. Stessa percentuale per il borato dalla Turchia, mentre la domanda di platino è per il 71% soddisfatta grazie al Sud Africa.
Il ruolo della politica
A complicare ulteriormente la situazione, caso mai ce ne fosse bisogno, sono gli sviluppi più recenti della cronaca. Come riporta infatti Affari Italiani, rame, ferro, litio e terre rare presenti in Afghanistan rappresentano un tesoro stimato a oltre tremila miliardi di dollari.
Dietro le dichiarazioni di circostanza, non è difficile intuire come in realtà qualche Governo abbia già iniziato a muoversi. Almeno, in via non ufficiale. In particolare, grazie anche a un rapporto meno tumultuoso e più cinico, la stessa Cina intenzionata a non accontentarsi della disponibilità interna. Per chi è disposto a mettere da parte qualsiasi considerazione etica sulla destinazione dei ricavi di questo commercio, si tratterà di mettersi in coda. Da seguire anche il ruolo della Russia, pronta a inserirsi nel vuoto lasciato libero dagli USA e aumentare la propria egemonia sul fronte risorse energetiche.
Fino a poco tempo fa, tutto questo erano riflessioni per pochi addetti ai lavori. La carenza prolungata e diffusa di materie prime e componenti, con le relative ripercussioni sugli scaffali, ha però portato il problema di pubblico dominio. In particolare, a rendere più popolari le terre rare ci ha pensato anche un servizio di Milena Gabanelli per il TG 7 e il Corriere della Sera, dove sono emersi anche altri aspetti, non meno preoccupanti.
Secondo l’inchiesta infatti, la Cina potrebbe contare anche su un’altra importante rendita di posizione, quella legata al recupero delle terre rare da dispositivi e materiali di scarto. In questo caso l’Italia, e l’Europa con lei, pagano un doppio prezzo, prima per lo smaltimento dei rifiuti e poi per i materiali trattati dal riciclo.
Anche l’Italia può giocare la partita del riciclo
Su questo punto però, si può aprire un interessante confronto. Anche se la notizia di per sé è certamente da considerare vera, la situazione sta cambiando. «Almeno per il settore di recupero delle schede elettroniche nel quale lavoriamo, mandarli in Cina oggi non è facile – spiega Ugo Cominelli, titolare di 2C Ecologica -. Ancora di più, dopo la recente impennata del costo dei trasporti, passato in poco più di un anno da 2.500 euro al container a 14.000 euro».
L’ultima tappa di un percorso insidioso, con una situazione già da tempo sul punto di esplodere. A contribuire, oltre alla effettiva distanza tra offerta e domanda, decisioni politiche e strategie economiche si sono sommate come mai in precedenza. «La Cina ha sempre contingentato la vendita dei materiali – prosegue Cominelli –. Inoltre, durante la crisi tra Huawei e Donald Trump alcune aziende di terre rare hanno sospeso le forniture, innescando l’aumento dei prezzi». Per rendere l’idea, basti pensare al prezzo del rodio, arrivato a toccare gli 850 euro al grammo, vale a dire quasi venti volte più dell’oro.
Nonostante difficoltà tecniche e costi ancora elevati, diventa così interessante il riciclo dei materiali contenenti anche terre rare. Per 2C, non un argomento nuovo, dove però ora il momento di prendere una decisione si avvicina. «Ci siamo già organizzati per i materiali preziosi, ma in questo caso servono impianti più complessi. Bisogna anche aggiustare il metodo di raccolta e selezione. Si passerà da un recupero selettivo delle schede a uno più generalizzato di tutte quelle dove sia possibile quale ricavare i componenti».
Il problema è come prevedibile legato a tempi e investimenti. Gli impianti in grado di recuperare anche le terre rare da materiale elettronico sono grandi, complessi e costosi. Di conseguenza, servono anche volumi importanti per sfruttarli a dovere. Più di una rapida diffusione sul territorio, la prospettiva è quella di pochi stabilimenti, adeguatamente dimensionati e verso i quali far confluire il materiale di partenza.
«È ormai aperta la caccia alla strada migliore per abbattere i costi – riflette Cominelli –. Personalmente, sono convinto ci arriveremo, e neppure senza dover aspettare tanto». A ulteriore stimolo, e non caso gli USA si sono già mossi in questa direzione, l’importante prospettiva di riequilibrare le forniture mondiali e staccarsi dal monopolio asiatico.
L’ottimismo deriva dalla conoscenza nel dettaglio del processo. Come successo più volte in passato, ora il problema è riuscire a industrializzarlo. Se Stati come USA e Corea del Sud sono già in grado di procedere per conto proprio, difficilmente l’Italia potrebbe farcela da sola. Meglio ragionare in un’ottica continentale. «Credo sia più realistico parlare di un impianto ogni due nazioni, del calibro di Italia, Germania o Francia. In questo caso, impianti piccoli non sono più convenienti da gestire come invece è stato in passato».
La tentazione di guardare oltre l’ostacolo però non manca. La visione internazionale della società lombarda porta a valutare seriamente l’ipotesi di farsi promotore di un progetto in questa direzione, peraltro già in fase di studio in tempi non sospetti.
Anche se un po’ meno lunga e tortuosa di come poteva sembrare anche solo pochi anni fa, la strada resta comunque piena di ostacoli, ai quali se ne aggiungono regolarmente di nuovi. «Dal punto di vista di un vero processo industriale, dobbiamo considerare ancora tutto allo stato embrionale – conclude Ugo Cominelli –. Inoltre, chi ci è vicino, giustamente lo tiene per sé. Se guardiamo però alle richieste di forniture che ci arrivano, credo che in Germania siano a buon punto e probabilmente anche in Svezia. C’è però da considerare un’altra variabile, importante: l’imminente aumento nei costi dell’energia e del lavoro, molto rischiosi per avviare attività di questo tipo».